Cucina di recupero
Cucina di recupero: prodotti gastronomici sostenibili e poveri nati per necessità e oggi diventati ricercati
- La cucina di recupero del passato, tra pesce finto e salame di patate
- Pitina, la polpetta dei poveri
Le parole d’ordine del momento sono avanzi, sostenibilità, green, spreco. Spesso però si dimentica, soprattutto con uno sguardo al passato, la possibilità di produrre eccellenti prodotti sostenibili con il ricorso a ingredienti “di recupero”.
La cucina di recupero del passato, tra pesce finto e salame di patate
La storia di alcuni giacimenti gastronomici, per lo più sconosciuti, lo dimostra. Soprattutto in quelle terre che in periodi difficili di povertà hanno saputo trarre “dal poco e dal nulla” prodotti che nel tempo sono diventati addirittura ricercati.
Nel napoletano, durante la guerra, per sopperire alla mancanza di pesce fresco, è stato inventato il “pesce finto”. Realizzata con mollica di pane e tonno in scatola, la ricetta resiste tuttora, sia in famiglia, sia in qualche ristorante con alcune variazioni del cuoco.
Le rape in Trentino, le barbabietole in Valle d’Aosta, le patate in Piemonte sono stati impiegate in alcuni prodotti per compensare la mancanza di carne o di altri ingredienti opulenti e riuscire a creare veri e propri giacimenti gastronomici.
La ciuìga del Banale (Trentino) è una salsiccia o luganega, creata nella metà dell’Ottocento, durante un periodo di carestia e di raccolti assai grami. Veniva prodotta con rape che saziavano e di cui il territorio è ricco. Mescolate, in origine, alla carne del collo di maiale e con aggiunta di polmone e di fegato (attualmente questi ingredienti non sono più utilizzati per il sapore acido).
Il “boudin” valdostano è un sanguinaccio speciale in cui sono utilizzate barbabietole e patate, amalgamate con lardo e sangue di maiale. Viene condito con tante erbe, quindi insaccato e stagionato.
Mentre il “bodin” piemontese è un salame del Canavese, preparato lo stesso giorno della macellazione, insaccato con patate bollite.
Pitina, la polpetta dei poveri
Nelle tre valli denominate Val Tramontana, Valcellina e Val Colvera, inserite nel comprensorio montuoso sovrastante l’alta pianura friulana occidentale, territorio di emigranti e di un’economia di sopravvivenza, la carne era un bene prezioso e, dove scarseggiavano anche i maiali, l’ingegno degli abitanti ha generato la “Pitina”.
Si tratta attualmente di un salume stagionato, ottenuto da un impasto costituito da una parte di carne magra (ovina, caprina, capriolo, daino, cervo e camoscio) e da una parte grassa (pancetta e spallotto suino).
In passato gli abitanti del territorio sgrossavano le parti di carni meno pregiate, sminuzzate in un tagliere con un pesante coltello.
Venivano poi ricomposte in polpettine con aggiunta di sale, spezie, finocchio selvatico ed erbe aromatiche. Le polpettine (pitine) erano quindi passate nella farina di mais e messe ad asciugare al fumo del camino.
foto: rispettivamente visittrentino.info e pitina-igp.it