Caro chef, si cambia!
In momenti di crisi economica, la cucina e i suoi protagonisti si reinventano
Tumultuosa, per dirla con Antonio Gramsci (Italia terra di tumulti e non di rivoluzioni) è l’aggettivo corretto per definire la crescita della ristorazione in tempo di crisi. Certo le statistiche (le uso a mo’di Trilussa), mostrano un saldo negativo fra chiusure e aperture, ma i nuovi locali fanno più rumore, rispetto alle saracinesche chiuse. Ovverosia il contrario del teorema sulla notizia, dove la cattiva scaccia la buona. Infatti da mesi arrivano sui tavoli notizie di nuovi format. Ebbene, non vorremmo che la crescita del nuovo che avanza (il totale di tutta la ristorazione, in senso largo, tocca i 73 miliardi di euro) fosse dovuta, in larga parte, all’ingresso della malavita organizzata, come dimostrano le chiusure dei circa 20 locali a Roma. Insomma un circolo virtuoso fra coca, prostituzione, pizzo e cibo. Ormai tutti sono entrati nel barnum della cucina: nani, ballerine e camorristi. Il dramma è che in questi momenti di grave crisi economica, la clè possono tenerla aperta non solo i ristoratori accorti e professionali, ma soprattutto chi riversa risorse facili nelle gestioni “in perdita”, ovverosia attraverso il riciclaggio di denaro “sporco”. Questa concorrenza sleale può mettere fuori mercato chi, a fine mese, può contare solo sul proprio cassetto.
La ristorazione, oltre a questi fattori endogeni, è in piena mutazione spinta dalle difficoltà, alla ricerca di nuovi modelli. La haute cuisine segna il passo, nonostante lo star chef system televisivo stia spingendo migliaia di giovani a iscriversi negli istituti professionali per diventare stelle di pentole e padelle .
Il cliente chiede sempre meno i menu degustazione, che bloccano ore a tavola, vini diversi per ogni portata e soprattutto pretende conti possibili. E inoltre da considerare l’ormai desparecidos nota spese aziendali o quella da deputato regionale che, non poco in passato, hanno contribuito al bilancio di locali costosi.
Molti chef, di fronte al rallentamento della loro attività, hanno cominciato a diversificare: stanno nascendo così secondi locali dove l’esperienza professionale permette di abbattere i costi del ristorante “storico” offrendo menu conti sopportabili di mercato. Un esempio brillante è La Locanda dei 4 cuochi di Verona di Giancarlo Perbellini (2 stelle al suo locale di Isola Rizza) o la Trattoria del Cibreo di Firenze di Fabio Picchi.
Da non sottovalutare in questa mutazione il ruolo oggi rappresentato dal sistema cibo, al centro del “lifestyle” davanti alla moda e al design. Fino a qualche anno fa pochi erano i nomi conosciuti in Italia, forse l’unico Gualtiero Marchesi, mentre altri noti solo nel proprio territorio. Poi è scoppiato il fenomeno “chef”, a cui la televisione ha dato un contributo senza precedenti . Diversi fra questi (Carlo Cracco, Bruno Barbieri, Antonio Cannavacciuolo , Davide Oldani, Massimo Bottura, Gianfranco Vissani etc ) sono diventati testimonial di prodotti, star di serate e convegni, consulenti, dando vita a un fenomeno nuovo in Italia, sebbene già esistente da tempo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia. Questa attività “collaterale” permette ai pochi famosi di supportare economicamente il bilancio annuale del ristorante, ma in qualche caso, secondo molti, toglie forza creativa alla cucina, sebbene il mio parere sia che l’assenza dello chef patron, quando questi ha creato un’organizzazione efficiente, non debba essere avvertita. Con questi “lumi” la haute cuisine difficilmente potrà sopravvivere senza ricorso ai contributi esterni.
Di conseguenza il nuovo che avanza sono i locali a tema: la cucina di un territorio, una pietanza (le polpette, gli hamburger, etc) un prodotto declinato (mozzarella, pasta, prosciutto, riso, etc.), l’orto, Eataly in miniatura, lo Street food, o ancora i “dietro al banco” di un tempo. E’ questo il format che più sta facendo proseliti.
Sono locali design, in location d’antan, dove compaiono sia i prodotti cult (le uova di galline cresciute con latte di capra, la pasta di Gragnano, le acciughe del Cantabrico, il prosciutto iberico, la carne piemontese o podolica, il salame di maiale nero, il pane di Matera, etc.), sia un’offerta di un menu fatto di piatti uguali ovunque. Purtroppo i prodotti offerti ormai non sono più frutto di ricerca perché la larga diffusione toglie loro il carattere di rarità. Al tempo stesso le pietanze ripetitive, non sono “originali” come nel passato nelle autentiche botteghe “dietro al banco”, ma sono la nuova frontiera dell’omologazione.
Sine qua non