Leccornie in Giappone
Identificare la cucina del Sol Levante nel sushi o nel sashimi significa ignorare la grande e raffinata cultura di questo paese
Mi ha fatto un certo effetto assistere a una cena dove protagonista era la tradizione culinaria made in Japan (washoku) riconosciuta dall’Unesco quale patrimonio dell’Umanità. Un giusto riconoscimento alla realtà di un paese che nel cibo identifica la sua antica cultura materiale e il rispetto sacro della stagionalità. Così come è stato corretto conferire, a suo tempo, il riconoscimento Unesco alla cucina nazionale francese. E l’Italia? Lasciamo perdere…un vero capolavoro alla Tavazzi, che più volte nel tempo ho definito un autogol: la presentazione della candidatura della dieta mediterranea assieme a Grecia, Marocco e Spagna con le quali non ci sono assonanze culinarie, e per giunta sono poveri assai di gastronomia e di cucina. Il riconoscimento in coabitazione ridimensiona il ruolo dell’Italia che, per la sua gastronomia, la tradizione e la cucina, è leader nel mondo.
E’ stata una felice esperienza partecipare alla cena sulla tradizione gastronomica giapponese, organizzata splendidamente nel Teatro del Sale di Firenze da Fabio Picchi, soprattutto perché ho avuto, ancora una volta, riprova che identificare la cucina del Sol Levante nel sushi o nel sashimi significa ignorare la grande e raffinata cultura di questo paese. Basti pensare alla cucina kaiseki, ricca di storia e di una tradizione secolare, spettacolare e commovente nelle forme di presentazione. Ma soprattutto non sono conosciuti i prodotti artigianali; certo non c’è in Giappone una varietà e una Biodiversità come in Italia, ma è sviluppata la manualità, il rispetto della stagionalità a cominciare dai fermentati: il miso, un misto di soia cotta con altri ingredienti (variano a seconda dei territori) da cui nascono soprattutto le zuppe o piatti di pesce (assaggiato alla cena con miso bruciato) o le alghe essiccate (assaggiate nel piccolo sushi).
Altra chicca, ricca di storia e di una complessa lavorazione, sono i sakè delle cantine artigianali, dal complesso processo produttivo: le varietà di questa bevanda sono tante (risi o cotture differenti), così le temperature a cui servirlo (caldo o freddo) nonché la soia artigianale, quali Torii salsa di soia, fatta a mano con tutti gli ingredienti della città di Nanao, usata da Picchi, con la trippa. Ecco l’originalità della cena è consistita nella contaminazione (il divenire hegeliano della cucina) fra le proposte del Teatro del Sale e i prodotti made in Japan, tra cui la squisita rosticciana di maiale bollita con l’alga Oboro bianca o il gurguglione invernale con tonnina e il Katsuobushi (fiocchi di filetto di tonno essiccato, grattugiato dalle sapienti mani di un artigiano).
Una finestra particolare merita la delicata zuppa (o brodo) assaggiata o meglio il dashi dove l’acqua ha un ruolo fondamentale. Ebbene, la cuoca giapponese ha preteso che l’acqua fosse la stessa del suo paese (il miracolo è stato realizzato da un centro di ricerca che ha ricreato l’acqua con le stesse proprietà). Il brodo dashi ci porta a una originalità giapponese. Fino all’inizio del Novecento i sapori fondamentali si pensava fossero: dolce, salato, aspro e amaro, ma un chimico giapponese Kikunae Ikeda, cercando di scoprire il sapore fondamentale di una zuppa (dashi), fatta di alghe e pesce, si accorse che era diverso dai riconosciuti, derivato dal glutammato, un sale dell’acido glutammico (è un amminoacido). Lo chiamò “umami”, ovverosia un sapore che possiamo definire sapido, che caratterizza la gastronomia del Sol Levante, ma è un amminoacido presente in tanti prodotti.
Sine qua non