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Com'è snella madame Mortadella

Lo chef Massimo Bottura è l'esempio di come il cibo sia soprattutto testa e immaginazione


Andiamo (d)al Massimo. Diavolo d'un Bottura mi ricorda Archimede Pitagorico sempre con la lampadina (delle idee) accesa. Chissà se la sua immaginazione naviga nella notte; il giorno non si ferma mai. Ti spiega il procedimento di un piatto, la tecnica utilizzata, il più minuscolo tra gli ingredienti. Corre a Parigi per un'esposizione al Palais de Beaux-Arts sulla contaminazione tra arte e cucina, quindi va a ricevere l'imprimatur di leadership dalle guide.

Uno chef frenetico, ma un esempio raro di amore e passione per il suo lavoro. Quando ti racconta un piatto hai l'impressione che lo ripercorra mentalmente: dalla materia prima fino alla mise en place; te lo fa vivere quasi a volerti farti entrare nella sua creazione per stimolare i tuoi sensi (percezione-sensazione).

Sapori e profumi accompagnati da riferimenti artistici (Monk, Picasso, Fontana, ecc.) e musicali; un chiaro messaggio: il cibo non è pancia, ma anche e soprattutto, testa e immaginazione. E non si può sfuggire alle sue sollecitazioni perché i suoi piatti, sebbene siano "materia naturale" del suo territorio - mortadella, tortellini, Parmigiano Reggiano, aceto blasamico - alla portata di ogni cuciniere o massaia, vengono sapientemente trasformati per "oliare" la memoria olfattiva. Per farli tornare alle origini, quasi a volerli preservare dalle manipolazioni del tempo.
 

Eccomi cavalcare l'Ippogrifo quando arriva in tavola «ricordo di un panino alla mortadella»: gnocco con cicciolata a braccetto con madame Mortadella (poche, ahimè, ormai le signore speciali sul mercato): ma prima o poi ci sarà un'ascesa sociale (di qualità) complici calici di Krug (è il miglior accostamento possibile). Questa romantica creazione di Bottura l'ho gustata al tavolo con il patron di una nota azienda produttrice di questo salume che, al pari mio, è rimasto basito. «Come è riuscito - ci chiedevamo - a rendere così "snella" madame, lasciando intatto il suo inconfondibile charme?». E in quale modo trasforma come un alchimista un'anguilla («viaggio a Modena di un capitone di Comacchio») in un boccone gustoso, meno "bastardo", direi raffinato? Ancora con poveri giacimenti del territorio: glassato con saba e polvere di cipolla bruciata.
 

Dalla saba però al più ricco e familiare aceto balsamico tradizionale di Modena per rompere i confini regionali della cucina con la tecnica di laccatura (eppure in cucina non si trova un cuoco cinese…) di «un maialino da latte con ristretto di marinatura». Eccellente la sua carne, ma ancor più attraente l'insostenibile leggerezza dell'essere di un purè di patate lavorato con olio d'oliva extravergine, in luogo del burro. Delicato, sapido, assai diverso nel gusto dal purè mitico di Joel Robuchon, ma ho invocato il tris. Alla vista dei ghiotti «ravioli di porri, foie gras e tartufi» ho immaginato l'autunno con i suoi colori, una sintesi cromatica fra questi tre ingredienti con una sfoglia così leggera, sottile, quasi sospesa a un metro da terra. Dulcis in fundo di questa cavalcata, tra piatti recenti e piatti storici dell'Osteria Francescana: «la patata che vuole diventare un tartufo». Uno scontro metaforico di terra, fra povertà e lusso, un piatto surrealista alla Renè Magritte («le immagini vanno viste quali sono, amo le immagini il cui significato è sconosciuto perché il significato della mente stessa è sconosciuto»). Il successo di Bottura è anche, e soprattutto, aver saputo "mettere in campo" un team affiatato dove Beppe Palmieri, l'uomo ombra, signore della sala, porta la sua elegante competenza (anche dialettica) nel racconto dei vini. 

Foto: ilgustofilo.wordpress.com
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Osteria FRANCESCANA
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