Torna a inizio pagina

Un onnivoro tra i vegani

Può un critico onnivoro giudicare dei piatti vegani?


Mai dire mai! Così pensavo fino a quando, tempo fa, non ho ricevuto una chiamata da Pietro Leemann, lo chef antesignano in Italia prima di una cucina vegetariana, poi vegana: insignito di una stella Michelin con il suo ristorante Joia (in Francia brilla il pluristellato Alain Passard), da sempre stimato dalla critica anche onnivora. Ebbene Pietro (fondatore del concorso con Gabriele Escherazi) con la sua consueta gentilezza mi ha chiesto di far parte della giuria “The Vegetarian Chance contest” nel ristorante del Mudec Museum di Milano dello chef Enrico Bartolini. Già una volta avevo in passato offerto la mia disponibilità, ma per impegni non ho poi potuto partecipare.

Premetto: sono onnivoro da sempre, resto onnivoro senza remore, ma sono molto aperto alle esperienze, soprattutto quando permettono di approfondire i comportamenti, la cultura e la filosofia altrui. Soprattutto il “Vegetarian Chance contest” pensavo mi avrebbe aperto (e lo è stato) verso un altro modo di interpretare la cucina e il relativo giudizio sulle espressioni culinarie vegane. La prima riflessione è stata sui parametri di valutazione dei piatti. E’ un argomento che di certo alimenterà future querelle. Chi è abituato a “giudicare” i ristoranti, diciamo onnivori, dispone di una cultura tale da poter elargire promozioni o stroncature pure ai locali vegani, di certo destinati a crescere?

Mentre mi sedevo al tavolo dei giurati, dove l’unico onnivoro come me era Enrico Bartolini, ritenevo che in fondo in un piatto molti cercano piacevolezza, armonia, gusto, qualità degli ingredienti. Inoltre pensavo di aver capito, leggendo qua e là, che pure per i vegani i parametri portanti siano: una ridotta manipolazione degli ingredienti, la purezza, la sostenibilità e la stagionalità delle materi prime. Ma chi nega, in fondo, questi valori? Forse solo chi mangia con la pancia e non con la testa (dal motto anni’80 del Gastronauta: si mangia con la testa e non con la pancia). Insomma mi sentivo tranquillo di dare un giudizio fondato sulla conoscenza del cibo (sebbene la mia Critica della Ragion Gastronomica neghi l’oggettività, come molti filosofi ci hanno insegnato sul gusto e sull’olfatto).

Invece non è stato proprio così: il dubbio, dopo aver assaggiato molti piatti, mi ha assalito quando una giurata, vicino a me, molto competente, ha messo in discussione l’utilizzo della cipolla e poi, all’improvviso si è alzata, all’arrivo di un altro test, dicendo sono “vegana”, questa è una proposta “vegetariana”. Sinceramente non ho compreso quale fosse il limite di quella proposta tra le due cucine. Insomma mi sono reso conto che non è così semplice “giudicare” la cucina vegetariana, da parte di chi non ha sufficientemente approfondito anche particolari, a prima vista, di importanza esiziale.

La mia sorgente di perplessità, di fronte a questi interventi “vegani”, però si è volatilizzata quando è arrivato il giudizio finale della giuria: i primi due in graduatoria sono stati gli stessi che ho votato, addirittura il primo cuoco con un differenziale notevole. Il suo piatto “Rosso”, una rivisitazione dello spaghetto al pomodoro (la materia con cui è stato preparato lo spaghetto è il pomodoro stesso), che poteva anche essere “inzuppato” in un brodo di acqua di pomodoro. Una realizzazione strepitosa di Antonio Zaccardi, sous chef di Enrico Crippa del ristorante Piazza Duomo di Alba, che mi ha confessato di non essere vegano, ma di amare una cucina basata sulle verdure. Eccellente anche la seconda creazione di Zaccardi un “Tacos di mandorle”, una proposta a base di frutta secca e profumi di zafferano, fiori ed erbe. Confesso di poter mangiare questi due piatti anche con la pancia perché soddisfano ampiamente il palato, ma al tempo stesso mostrano una tecnica davvero sopraffina del sous chef del Duomo.

Di stile completamente diverso la creatività del secondo arrivato, l’olandese Lennart Van Weert, che ha presentato un piatto molto composito, già nel titolo: “Fresco dalla terra nelle mani dello chef”. Due piatti in uno: nel primo asparagi bianchi che emergono dalla “terra” commestibile, nel secondo un variegato insieme di erbe unite a perle di tapioca e anelli di patata. Il secondo piatto: “Iniziare dalla mia terra e poi lasciare la mia mente libera di spaziare": un caviale di melanzane delicatamente avvolto in ravioli a base di farina di ceci. Lo chef olandese (lavora all’hotel Sandton Chateau de Raay) è arrivato con la sua auto con tutti i vegetali da lui raccolti. Insomma una riuscita presentazione cromatica e spettacolare la prima creazione, diversamente piacevole la seconda creazione in bocca.

Non ho apprezzato le creazioni del terzo arrivato (non l’ho votato per quella posizione), il giapponese Okuda Masayuki (del ristorante Al-cecchino di Tsuruoka) con il suo “Profumo di bosco”, per la sua disarmonicità, mentre mi ha colpito l’estetica del suo secondo piatto “Cruda” (verdure tagliate con spessori millimetri e condite con la bava degli okra). I dubbi, che mi restano tuttora, sulla mia capacità di onnivoro di dispensare giudizi sui piatti della cucina vegana, rimangono sul primo piatto giapponese che ho visto invece aver raccolto grande entusiasmo in giuria e anche le proposte dei restanti concorrenti dei quali devo ammettere di non aver assaggiato piatti che ricordo. Penso sia interessante comunque discutere sulla capacità intellettuale di un critico onnivoro di giudicare piatti della cucina vegana.

(foto: thevegetarianchance.org)

ADV