Se la cucina "liquida" finisce sulla brace
Finite le ideologie culinarie, nello spazio lasciato vuoto dalla cucina liquida, c'è un revival delle trattorie e delle osterie, nonché un ritorno della brace e del cibo selvatico.
Una dopo l’altra, le ideologie culinarie sono crollate così come il “muro di Berlino”. Prima la Nouvelle Cuisine dei santoni francesi (Alain Chapel, Michel Guérard, Paul Bocuse, i fratelli Troisgros, Roger Vergé), poi lo spagnolo Ferran Adrià di El Bulli di Roses e i suoi seguaci, quindi la cucina nordeuropea del Noma di Copenaghen di René Redzepi.
LA FINE DELLA CREATIVITA' COSTRITTIVA
La loro fine non è stata economica (basti pensare al numero di prenotazioni di El Bulli fino a pochi giorni dalla chiusura), così come invece sostengono le tesi più diffuse. Di certo ha influito il modello sul quale sono state create le filosofie gastronomiche di queste tre scuole, i cui principi sono scolpiti nei diversi “manifesti” della nouvelle cuisine, della cucina destrutturata di Ferran Adria, del manifesto per la nuova cucina nordica, seguiti, per anni, da migliaia di cuochi, cucinieri e chef sparsi per il mondo.
Filosofie culinarie costrittive in alcuni casi, ossessive in altri per la ricerca di un feticcio banalizzato come la creatività e l’innovazione, che ha bloccato e castrato i cuochi, attirati dal compiacimento delle guide gastronomiche, seguacI a loro volta degli stessi paradigmi dei diversi manifesti.
Le 3 scuole, in tempi diversi, hanno esaurito la spinta del nuovo e non hanno avuto più la forza di sostenere un credo, basato sulla ricerca compulsiva, portatore di una pressione assurda. “Se l’eccellenza diventa inseparabile da questa cultura - come ha sostenuto Rezdepi - il lavoro non è sostenibile”.
L’uscita di scena, o quasi, di coloro che sono stati alla ribalta internazionale ha lasciato il pianeta culinario senza icone e privato larga parte dei cucinieri, e di critica gastronomica, di veri e propri dogmi a cui fare riferimento.
Per anni infatti molti chef sono stati gratificati perché parte di una cultura dominante, motivo per cui hanno raggiunto successi e notorietà.
CUCINA LIQUIDA E CUCINA LIBERA
Il vuoto pneumatico, formatosi dopo il crollo, ha generato una cucina libera, senza più lacci e lacciuoli, quasi a validare il pensiero sulla società del sociologo Zygmunt Bauman (autore di “Modernità Liquida”).
La metafora della liquidità descrive perfettamente la condizione nella quale si trova tuttora la cucina. Una sorta di zona intermedia, transitoria, i cui approdi, una volta persi i valori, sono tuttora indefiniti. L’unica costante non è difatti una nuova scuola di pensiero o un nuovo chef che promuova principi condivisi, bensì l’incertezza di un qualcosa che validi una scuola di pensiero, di cui far parte.
A riprova di quanto descritto, il termine “liquida”, riferito alla cucina, non è nuovo, è stato impiegato da Henry Gault, creatore della nouvelle cuisine con Christian Millau, proprio per “notificare” la fine del movimento da lui stesso creato con un manifesto, allora “rivoluzionario”.
Così, in una intervista (“il Sole 24 ore domenicale”, 12 febbraio 1984), Henry Gault affermava: “Senza tradire le mie convinzioni, devo ammettere che il termine (nouvelle cuisine) non è più appropriato, oggi bisogna parlare di open cuisine, di cucina libera”.
Attualmente è un fiorire di “predicatori” di cucine emergenti, che non sono portatori di innovazione, come invece lo sono stati i Maestri francesi, Ferran Adrià e Rezdepi, ma il nuovo che avanza, occupa uno spazio appunto “liquido” temporaneo, che non lascerà tracce significative, fino a quando non apparirà un nuovo “signore” dei fornelli in grado di cambiare i codici della cucina.
In questo spazio “liquido” purtroppo i segnali che arrivano sono anche dai social, creatori di fenomeni da baraccone come Salt Bae, macellaio turco, che sparge sale sulle carni, con gesto scimmiesco.
E IN ITALIA?
Se il mondo piange l’assenza di riferimenti culinari a cui rifarsi, l’Italia non ride.
Così come non abbiamo mai avuto rivoluzioni sociali e politiche, ma solo tumulti, il faro continua a essere la “sempre verde” dieta mediterranea, sebbene mai reputata come filosofia (al pari delle tre scuole di pensiero) da chef e dalla critica internazionale.
Qua e là, nel tempo, abbiamo avuto tumulti, quali Gualtiero Marchesi con la “cucina totale”, che ha generato una schiera di chef affermati che hanno poi elaborato dei percorso personali.
Negli spazi “liquidi” alcuni cuochi hanno certamente conquistato popolarità internazionale, come Massimo Bottura, grazie alle affermazioni nelle diverse classifiche mondiali, autore di certo di uno stile, ma non di un vero e proprio movimento.
Lo spazio “liquido” in Italia è occupato da una ristorazione omologata di cotture tecnologiche (sottovuoto), arrivate da oltralpe, da insopportabili e stucchevoli amuse bouche (che ho definito da tempo ex voto o santini), che necessitano di Gps per seguire le indicazioni del cameriere all’arrivo degli assaggi: si parte dal primo a destra, poi al centro ecc.
I menu degustazione privano la libertà di scelta con la “giustificazione” di non spreco e sostenibilità, infarcita però di prodotti modaioli d’importazione.
Il grande successo di revival di trattorie, di osterie, di bistrot è la conseguenza di una clientela che non apprezza condizionamenti di scelta, così come menu che diventano racconti cantati in canto gregoriano e i piatti rivestiti come nelle sfilate di moda.
La domanda scorre verso piatti veraci, ben cucinati con ingredienti di qualità stagionali, che non sono “pettinati” per i selfie e dove il locale non offre la vista di un set televisivo.
Lo spazio liquido attuale offre qualcosa di nuovo, anzi di antico: un ritorno alla cucina del fuoco, a carbone e legno (tradizione di trattorie) e al cibo selvatico: pesce, frutti e piante spontanee del bosco, soprattutto la cacciagione, prevista dalla legge 157 e quella di selezione.
Chissà se Victor Arguinzoniz, attualmente il più straordinario “asador” della cucina alla brace, del locale Etxebarri di Axpe, frazione di Atxondo, nei Paesi Baschi, non diventi il nuovo riferimento della cucina mondiale.