Calabria, le api di Francesca sulle colline di Tropea
Nell’apicoltura di Francesca Rombolà le api vivono felici e svolgono la loro funzione fondamentale per il pianeta
- Come è nata la storia delle api di contrada spaccio?
- Un amore che dura da generazioni
- Il miele, il polline e il progetto dell'apiario olistico
Ci sono le nutrici, le guerriere, le becchine, le spazzine e le operaie. Un ecosistema che funziona alla perfezione, declinato esclusivamente al femminile (e forse le due cose sono direttamente proporzionali). È un caldo pomeriggio di maggio quando scopro il mondo che si nasconde in un’arnia e ne rimango sbalordita.
Penso che il matriarcato, di cui parlava Bachofen, esiste ed è rappresentato dalle comunità costruite dalle api. A illuminarmi è Francesca Rombolà (no, non ci sono vincoli parentali), una giovane apicoltrice di Brattirò, il minuscolo borgo sulle colline di Tropea, dove sono vissuta fino a 18 anni.
Come è nata la storia delle api di Contrada Spaccio?
“Mi occupo di api da quattro anni, nonostante sia allergica. Da quando ho imparato a conoscerle, ne sono rimasta affascinata e non ho potuto più farne a meno. Entro nell’apiario con il cortisone perché non riesco a starne lontana”, confessa l’allevatrice di api al nostro incontro. La sua passione per questi insettii è recente, ma ha origini molto lontane che risalgono a 75 anni fa. Sono da rintracciare nella famiglia di suo marito Girolamo, il cui padre per anni è stato il primo e unico apicoltore del paese.
La storia delle api di Contrada Spaccio inizia per caso: per una curiosità che crea meraviglia e permette di andare oltre il familiare per guardare le cose diversamente. Con stupore, appunto.
È il 1945, il nonno di Girolamo, di rientro dalla guerra, viene ospitato a Nola, in una masseria di contadini. Mentre si gode la pace della campagna, una piccola cassetta di legno attira la sua attenzione, quando scopre che si tratta di un allevamento di api, ne rimane affascinato. Un incontro, questo, che è destinato a cambiargli per sempre la vita. Al suo ritorno a casa, racconta al fratello quello che ha visto e insieme decidono di diventare apicoltori. “Allora non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi, impiegano un anno a contattare l’apicoltore di Nola, che vende loro una famiglia di api. Giunta a fatica dalla Campania a Tropea, è il primo nucleo della comunità”, è contenta, Francesca, mentre ripercorre gli step della sua piccola e amata azienda.
Non avendo ancora le arnie, i due fratelli allevano, per un po’ di tempo, le api in un ruvàci (secchio di legno fatto a doghe). Sono entusiasti per questa nuova avventura, che viene bruscamente interrotta dalla morte di uno dei due. L’altro, nonostante la grave perdita, non si scoraggia e decide di andare avanti, rendendo l’apicoltura una missione di vita dedicata al fratello. Studia, si informa, si abbona alla rivista “L'Apicoltore Moderno” di Don Giacomo Angeleri, fa costruire le arnie Dadant Blatt da un falegname del paese e inizia a trasmettere loro quell’amore e quel rispetto che viene poi tramandato al padre di Girolamo, a Girolamo e a Francesca.
Un amore che dura da generazioni
“Noi, oggi, portiamo avanti la missione d’amore del nonno. Continuiamo a rispettarle, a non oltraggiare il loro ambiente perché non devono mai sentirsi violate e devono capire che la loro casa non è in pericolo. Ancora oggi sono nello stesso identico posto di 75 anni fa. Anche se di questi tempi è più complicato, la vitalità di questo insetto è messa a dura prova dall’inquinamento e dalla perdita della biodiversità, ma la passione ci sollecita a superare gli ostacoli quotidiani e a credere nel nostro progetto, ogni giorno di più. Siamo fieri di essere i custodi delle Api di Zio Cicco!”, sottolinea Francesca.
Mi racconta con entusiasmo delle loro 16 arnie, di come si nutrono le api (la Regina con pappa reale, le altre con pane d’api), di come si organizzano nella loro comunità perfetta, dei ruoli che ognuna di loro porta avanti, per breve tempo (3/4 giorni), nella vita di circa un mese (solo l’ape regina può vivere fino a quattro anni): nascono, puliscono il loro opercolo (api spazzine), lavorano per la comunità (operaie), proteggono l’ecosistema (guerriere), accudiscono la covata (nutrici), rendono l’interno dell’alveare un tempio, ripulendolo dalle api morte o malate (becchine), impollinano i fiori (bottinatrici).
Capisco dalle sue parole che le api sono animali liberi, che in estate escono all’alba e tornano al tramonto e che l’arnia è un esempio riuscito di matriarcato: “i maschi, i Fuchi, non servono alla comunità, vengono solo utilizzati per uno scopo riproduttivo. Dopo che avviene l’accoppiamento, il Fuco muore”, puntualizza Girolamo. Più vanno avanti nel racconto e più mi rendo conto di quanto Francesca e Girolamo amino le loro api. Mi descrivono, felici, i giri che fanno in paese per tre chilometri, quasi come se stessero parlando delle loro figlie.
Scopro che anche mio papà se ne prendeva cura, “Franca, i lapunea ti trattu boni” diceva a Francesca ogni volta che la vedeva, e mi rendo immediatamente conto che tutte quelle che quotidianamente osservo, tra le piante di lavanda e di rosmarino del mio giardino, provengono dalle loro arnie.
Sono quasi orgogliosi Francesca e Girolamo perché, puntualizzano, le api non sono solo importanti per il miele. Anzi, sottolineano, il miele, per quanto benefico e salutare, è l’ultima cosa per cui dobbiamo essere eternamente grati a questi insetti laboriosi. “Le api impollinano circa 4.000 specie di piante entemofile, e circa 390.000 alberi e arbusti selvaggi. Se non ci fossero loro, non solo non avremmo più da mangiare, ma perderemmo il manto vegetale della crosta terrestre, con pericolo di erosione e smottamenti, oltre alla diminuzione drastica di ossigeno che, tradotto, significa fine della vita”, mi spiega la giovane apicultrice. E, se la vigna è ermafrodita e si auto-impollina, ha lo stesso bisogno delle api come indicatori biologici: sono sensibili ai veleni e percepiscono se vengono usati pesticidi.
Il miele, il polline e il progetto dell'apiario olistico
I prodotti principali dell’azienda Francesca Rombolà sono il miele (di acacia, millefiori e di castagno) e il polline.
Il miele viene estratto dai melari. I favi dei melari sono generalmente opercolati, cioè con le cellette chiuse da un tappo di cera. La disepercolatura viene effettuata manualmente, con una apposita forchetta o coltello. Una volta disopercolate le celle, i telaini vengono posti nello smielatore che, grazie alla forza centrifuga, fa fuoriuscire il miele. Dallo smielatore il miele viene convogliato nei maturatori, attraverso i filtri che hanno maglie di diverse dimensioni e che raccolgono i residui di cera, i resti delle api e qualsiasi altro materiale accidentalmente finito nel miele. Nella fase di smielatura il miele acquista aria, che viene eliminata nella fase di decantazione.
Nel maturatore il miele decanta e l’aria viene a galla sotto forma di bollicine che formano la schiuma. Una volta tornato limpido per l’eliminazione dell’aria e prima che inizi la cristallizzazione, può essere invasettato. Ogni miele presenta proprietà organolettiche e chimico - fisiche dei nettari da cui deriva, pertanto mieli di diversa origine botanica hanno colore, profumo, sapore e cristallizzazione differenti. Il miele di acacia avrà un colore più chiaro e una cristallizzazione più lenta rispetto al castagno, che è più scuro e ha un retrogusto più amaro. L’azienda pratica un allevamento rispettoso della natura, dei ritmi di vita e del benessere delle api. Salvaguarda la biodiversità, è socia del Biodiversity Association World.
In cantiere c’è un progetto molto lungimirante che prende il nome di Apiario Olistico, il primo del Sud Italia, che consiste nella costruzione di casette di legno delle api provviste di una vetrata dove, chi vuole vedere gli insetti, può osservarle libere nel loro mondo. “Non siamo per le arnie didattiche perché creano degli scompensi di umidità e di luce che non fanno bene alle api”, spiega Francesca, mentre mi descrive il progetto, e aggiunge: “chi entra in questo apiario potrà respirare l’aria dell’arnia, una sorta di aerosol naturale e sentire il ronzio delle api che stimola le attività cerebrali”.
Assaggio il miele di Francesca e scopro che, diversamente da quanto ho sempre pensato, preferisco l’acacia al castagno e che la melata, prodotta in quantità limitatissime, è sapida e più liquida del miele.
Ritorno a casa, osservo le api nella lavanda del mio giardino e ascolto Working class hero, immaginando la piccola comunità matriarcale e operaia. Sorrido e rifletto sulla parola sostenibilità, se dovessi concretizzarla, non avrei dubbi: sarebbe una piccola, ma grande, apina.