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La scoperta di Romito, quando ancora non era una stella

Già allora la ricerca dell'essenzialità era al centro dei suoi piatti


“Se il suo futuro sarà “Reale” (il suo locale di allora a Rivisondoli) non lo so, ma il domani sarà sicuramente da protagonista in una terra che possiede tutto: giacimenti naturali e gastronomici, vini e oli”.
Così iniziava il pezzo, il 24 agosto 2003, su queste colonne, su Niko Romito, allora cuoco sconosciuto nelle cronache culinarie italiane (come lui stesso ha scritto nel suo libro) e concludevo con: “ebbene, dopo tante bufale e mancate promesse, finalmente una realtà valida, un cuoco autodidatta, senza spocchia o presunzione di essere il nuovo Girardet o Robuchon o Ferran Adrià”.

Dopo 17 anni si può affermare che Romito è ormai inserito nel gotha mondiale degli chef: 3 stelle nel suo locale Reale di Casadonna; 1 stella al Bulgari di Pechino, nominato chef dell’anno 2020 al congresso di Madrid Fusion. Come spesso succede, la scoperta, una sera di 17 anni fa di quel piccolo e raccolto ristorante, fuori rotta allora dagli itinerari gourmet, è dovuta a un mio viaggio alla ricerca di giacimenti golosi. La mia meta era il Casino di Caprafico (Guardiagrele), azienda agricola di Giacomo Santoleri, un ingegnere “pentito” ritornato da Roma in terra natia, produttore straordinario di orzo, farro, olio e di una pasta originale, Ma’Kaira (pasta di semola di grano duro all’orzo). La sera stessa del mio arrivo, Giacomo ha insistito per farmi conoscere la cucina di un giovane cuoco, tra le montagne, “fuori dalle rotte di voi critici, di cui sono certo di un grande futuro”, mi ha sottolineato.

L’accoglienza al Reale di Rivisondoli di Cristiana, sorella di Niko, mi ha subito colpito: sorridente, efficiente, con gran savoir faire (con il senno di poi, una delle chiavi di successo dello chef). Della cucina di Niko, dopo aver assaggiato alcune proposte, mi ha impressionato il chiaro imprinting minimalista, la ricerca dell’essenzialità. Caratteristiche che, guarda caso, gli vengono tuttora riconosciute, oltre alla valorizzazione dei giacimenti del territorio abruzzese. Tra i piatti assaggiati mi ha subito colpito la leggerezza: una costante della cucina, a cominciare dallo stinco di vitello in casseruola, la crema di aglio di Sulmona e un piatto a base di baccalà. La ricerca di presentare piatti “armonici”, nonostante l’utilizzo di più ingredienti, mi è parsa evidente nel lombetto di coniglio al basilico e olive nere, dove le taggiasche si fondono con lo zafferano di Navelli (uno dei giacimenti abruzzesi, come l’aglio di Sulmona). Ho avuto l’impressione che volesse far conoscere i gusti forti della sua terra in una chiave nuova, sua personale per renderli più accessibili nelle ricette. I dessert sono importanti, quanto il resto nella cucina di Romito: soprattutto perché la famiglia di Romito ha tradizioni di pasticceria, che sono state confermate dalla crema di ricotta di pecora al profumo di cannella, con mousse di cioccolato soffiato. Forse ho chiesto il bis.

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