Fratelli di un'Italia più sobria
Diversi i fattori che hanno portato gli italiani a bere meno vino
Si beve meno vino? Le cifre sono molto chiare: nel giro di due decenni si è passati dalle triple cifre agli attuali 37/38 litri pro capite, con previsione di ulteriore calo nei prossimi anni. È un fenomeno positivo dal punto di vista salutistico o un male per i consumi e di conseguenza per la produzione? Di certo non è una una realtà solo italiana perché anche la Francia (ma pare il calo si sia fermato) e la Spagna, storici produttori di vino, presentano cali pro capite molto significativi, a fronte di crescite evidenti nel Nord Europa.
Si consuma meno vino in un Paese, come l'Italia, dove la produzione è al primo posto (in ballottaggio con la Spagna secondo gli ultimissimi dati) e il paese è anche il maggior esportatore di vino al mondo in quantità, superati purtroppo dalla Francia in valore. Questo aspetto non è insignificante perché ci permette di fare una prima considerazione sui dati del consumo pro capite.
Quando le stime negli anni Sessanta-Settanta indicavano 100-120 litri di vino consumato da ogni italiano (ma non dimentichiamo mai Trilussa quando parlava della statistica sul consumo del pollo), quali rossi e bianchi si trangugiavano in questo Paese? Di certo non un vino di qualità, ma una massa sulla quale c'era posto per tutto, da cui lo scandalo del metanolo della metà degli anni Ottanta. I controlli che hanno seguito quel momento buio hanno forse portato a un cambiamento anche nell'approccio dei bevitori verso il rosso e il bianco made in Italy.
Questo fattore, meno quantità più qualità, non ci fornisce una chiave per rispondere alla domanda perché si beve meno, soprattutto quando si nota che il consumo continua la corsa verso il basso a tutti i livelli: le stime di Wine Monitor indicano ancora un 2013 con segno meno, dopo la riduzione del 3,6% nel 2012 nella Gdo (dove viene venduto il 65% del vino in Italia). Vediamo quindi di riflettere su questo andamento.
La prima motivazione può essere individuata nella crisi dei consumi: è chiaro che, con meno soldi in tasca, il consumatore (diventato più consapevole, attento al prezzo, alle etichette, a scegliere ciò che serve) rinuncia a qualche bicchiere di vino. E qui nasce un ritorno al passato: riappare il vino sfuso un po' ovunque anche in store quali «Eataly». Certo non più come negli anni Sessanta-Settanta quando non si sapeva cosa contenessero le damigiane... La riduzione della spesa è un fattore (Wine Monitor indica un aumento del prezzo del vino, nel 2013, del 10,2%), ma non il solo, soprattutto non è il principale.
Forse (e dico forse...) il cambiamento di stile di vita incide ancor di più e non mi riferisco solo al pur aspetto importante della salute, ma soprattutto ai comportamenti delle nuove generazioni (a cominciare dagli anni Novanta) che hanno subìto la grande frantumazione della famiglia, del mangiare assieme, luogo un tempo dove il vino a tavola era un punto fermo. Sempre in quel periodo, lentamente, «sono spariti i luoghi del vino a cominciare dalle osterie» (come canta Guccini), mentre sono nati locali completamente nuovi (quali i pub o simili) dove il cult è la birra. Una bevanda che, piano, piano, è diventata artigianale con un linguaggio giovane, moderno, intrigante che ha costruito un mondo attraente. Non sono le produzioni delle circa 500 birrerie artigianali a provocare i cali di consumi di vino, ma sono un'alternativa di passione e di entusiasmo. È difficile sostenere che i giovani non abbiano soldi per approcciare il vino perché le birre artigianali hanno prezzi non lontani dai vini rossi e bianchi.
Un altro elemento influente è stato di certo il controllo alcolico sugli automobilisti che ha rallentato le cene fuori porta, sebbene dopo una violenta reazione popolare, sono state create delle nuove forme di comportamento (uno dei convitati non beve per poter guidare).
Last but not least, una scontata evoluzione del gusto nei confronti del vino. Purtroppo la produzione made in Italy di vino ha subìto, a partire dallo scandalo del vino, un'attrazione fatale dai mercati americani e anglosassoni. Un comportamento dei produttori che ha portato l'Italia a essere il campione dell'export con relativi e importanti benefici nella nostra bilancia commerciale, ma ha cambiato le caratteristiche del vino in bottiglia. Sono stati così messi sul mercato i vini, pretesi dai guru internazionali, tutti incentrati sul modello americano-australiano: concentrati, legnosi (grande utilizzo di barrique), tannici, muscolosi, alcolici. Un modello assai lontano dalla tradizione italiana, dove la bevibilità è sempre stato l'elemento portante. E forse non è un caso che negli ultimi anni il vino che ha avuto i maggior consensi è stato il prosecco: un bianco di grande bevibilità, un tasso alcolico accettabile e un prezzo per le tasche attuali del consumatore. Altri vini, con simili caratteristiche, stanno emergendo a cominciare dal Pignoletto e soprattutto un felice ritorno del Lambrusco.
C'è anche la tesi che sostiene non esserci preoccupazione per il calo interno perché la produzione italiana è ai primi posti nel mondo, l'export del made in Italy va come un treno... Il Vinitaly 2014 è stato un successo. Tutto vero anche i corsi di sommelier e le università di enologia vanno a gonfie vele, ma in Italia si beve meno e nel 2013 hanno chiuso migliaia di ristoranti e locali però gli istituti professionali alberghieri eccetera hanno avuto un boom di aspiranti "chef", grazie a Masterchef. Può essere una consolazione?
Sine qua non.