Formaggi dell'Appennino Romagnolo
Squaquerone e raviggiolo
Leggi il domenicale!
Numerosi fra i giacimenti gastronomici riflettono modi di dire, termini dialettali in uso nel territorio di produzione. Fra questi davvero singolare è lo “squaquerone”, formaggio romagnolo (o prodotto in quel territorio bolognese di cultura materiale Romagnola), il cui “nome” stesso suggerisce che si tratta di un formaggio talmente liquido da squacquerarsi, cioè da liquefarsi o perdere la forma e allargarsi nel piatto. Lo squaquerone, un tempo veniva prodotto d’inverno con caglio naturale e latte vaccino fresco (oggi prodotto purtroppo anche altrove dalla terra di Pascoli) è un vero portabandiera della gastronomia romagnola perché trova la sua giusta collocazione dentro una piadina calda (ottenuta con metodo d’antan), magari affogato tra erbe di campo. Non solo talvolta veniva utilizzato per le paste ripiene, quale i cappelletti, secondo la ricetta in bianco. Davvero sorprendente il suo utilizzo nella cassata romagnola dell’Osteria Don Abbondio di Forlì o servito con fichi caramellati.
Numerosi fra i giacimenti gastronomici riflettono modi di dire, termini dialettali in uso nel territorio di produzione. Fra questi davvero singolare è lo “squaquerone”, formaggio romagnolo (o prodotto in quel territorio bolognese di cultura materiale Romagnola), il cui “nome” stesso suggerisce che si tratta di un formaggio talmente liquido da squacquerarsi, cioè da liquefarsi o perdere la forma e allargarsi nel piatto. Lo squaquerone, un tempo veniva prodotto d’inverno con caglio naturale e latte vaccino fresco (oggi prodotto purtroppo anche altrove dalla terra di Pascoli) è un vero portabandiera della gastronomia romagnola perché trova la sua giusta collocazione dentro una piadina calda (ottenuta con metodo d’antan), magari affogato tra erbe di campo. Non solo talvolta veniva utilizzato per le paste ripiene, quale i cappelletti, secondo la ricetta in bianco. Davvero sorprendente il suo utilizzo nella cassata romagnola dell’Osteria Don Abbondio di Forlì o servito con fichi caramellati.
Come succede ormai spesso appena tornato alla ribalta lo squaquerone ha trovato molti produttori, perdendo i vecchi sapori (latte appena munto, acidità) e le antiche modalità di produzione (una delle poche eccezioni è la produzione della Comunità di San Patrignano). La Dop (denominazione di origine protetta) è stata bloccata, fatto ormai frequente perché purtroppo fuori territorio in molti cercano di sfruttare il successo, pur non avendo storia e tradizione. Ma queste valenze non si acquisiscono con Dop e Igp anzi verrà il tempo che tutte le vere minoranze gastronomiche saranno quelle senza certificazioni.
Parente stretto dello squaquerone è il raro e antico raviggiolo dell’Appennino tosco-romagnolo, ottenuto con latte vaccino crudo e caglio, senza rompere la cagliata, ma solo scolando la massa e salandola in superficie, poi riposto su foglie di felce. Ha un sapore delicato, quasi dolce al punto che in molte famiglie dell’Appennino viene servito al mattino, come colazione. Va consumato fresco. C’è pure chi lo mangia fritto con uova al tegamino, ma “nature” è il modo migliore per apprezzarlo.Recentemente mi è stato proposto accompagnato da erba di campo e pane fritto, davvero squisito (prodotto dall’ azienda agricola il Boschetto di Premilcuore di Forlì). E’ da sempre la base dei cappelletti, così come insegna Pellegrino Artusi nel suo ricettario (ricetta 7): “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Sinequanon !
Davide Paolini